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Interessante intervista sulla fotografia di strada a RICHARD SANDLER
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Interessante intervista sulla fotografia di strada a RICHARD SANDLER
Matteo Maso Chieri,16 ottobre 2015
13 ottobre
Interessante intervista sulla fotografia di strada
RICHARD SANDLER – Cartelloni pubblicitari e sms hanno ucciso la street photography.
by Luigi Casentini | Aug 24, 2014 | INTERVISTE |
RICHARD SANDLER – Cartelloni pubblicitari e sms hanno ucciso la street photography.
ITA
– Signor Sandler, vorrei cominciare dalla fine: ho letto che lei aveva iniziato a scattare in bianco e nero perché voleva poter sviluppare le sue foto velocemente. Perché continua tutt’oggi a scattare in pellicola e in bianco e nero?
Scatto in bianco e nero perché “vedo” in bianco e nero; perché lo trovo più semplice, meno dispersivo e decisamente meno costoso del colore. Come sapete, scatto solo su pellicola. Quand’ero bambino la gran parte dei film erano in bianco e nero, così come la televisione, quindi quella è stata la mia impronta iniziale.
– Lei lavora anche col reportage, su riviste e quotidiani. Qual è la linea di confine (se ne esiste una) tra la street photography e il reportage?
Fare reportage consiste nel creare immagini che illustrino una storia già esistente, diventando una sorta di sicario, per così dire. Alle volte può capitare che la cosa si sovrapponga allo scattare nella strada, ma non succede spesso. Con la street si cercano storie che possano essere raccontate con una sola immagine. È un po’ un cliché, ma un fotografo di street è alla ricerca dello scatto che vale diecimila parole – o magari nessuna, perché si tratta di un’immagine talmente strana e particolare che non esistono ancora parole per raccontarla… Quelle sono le fotografie che preferisco.
– Come si muove quando scatta per strada? Cammina semplicemente e fotografa quello che vede o tende ad aspettare che succeda qualcosa di particolare?
Mi piace muovermi continuamente ed essere sempre alla ricerca di persone interessanti, o giustapposizioni di persone e sfondi. Le uniche volte in cui mi metto ad aspettare che succeda qualcosa in un dato punto è quando trovo una bella luce, ma quasi mai riesco ad ottenere qualcosa con questo metodo.
– In che modo è cambiata la street photography dal 1985, quando ha lavorato a CCtrain? Crede che sarebbe possibile ottenere fotografie del genere di questi tempi?
Io scatto soprattutto a New York, che, come la gran parte delle città di tutto il mondo, è cambiata davvero molto, e non la trovo più interessante com’era tra gli anni ’70 e i ’90. Oggi c’è molta più pubblicità, ci sono parole ovunque. La vita è molto più efficiente e legata al mondo lavorativo; ci sono un sacco di noiosissimi yuppie e molti meno personaggi “interessanti” in giro – una persona ogni tre parla al cellulare o ascolta la musica con le cuffie, e via dicendo. In altre parole, quel 33% dei passanti non è veramente “nella strada”, è alienato in un mondo virtuale e non è di alcun interesse per me… Penso che i cellulari abbiano quasi ucciso la street photography.
– Le capita mai di avere dei problemi nel fare street photography?
Sì, ne ho parlato nella domanda precedente. Inoltre, nel 1992 ho cominciato a lavorare anche come documentarista e video maker e, anche se continuo a scattare fotografie in pellicola da 35mm per la street, ormai il mio lavoro è soprattutto su video e film in pellicola a basso millimetraggio. A mio parere la street migliore, al momento, arriva da Teheran, che ha ancora l’aspetto di un bellissimo mondo “d’epoca”. C’è un gruppo di bravissimi fotografi lì, che lavorano sia su pellicola che su Instagram, e la luce nelle loro immagini è qualcosa di davvero speciale.
Ecco il link alla loro pagina: facebook.com/Fotomobers
– Lei ha anche documentato la tragedia dell’11 settembre. Quale impatto ha avuto questa catastrofe sul suo lavoro e sulle persone che incrociava per strada?
Ho girato un documentario sulla giornata dell’11 settembre 2001 e le settimane successive per le strade di New York; si chiama “Everybody is hurting”, una frase pronunciata da una delle persone che filmai nel parco di Union Square, il luogo di ritrovo in cui i newyorchesi andavano per sfogarsi, piangere e discutere. Non scattai fotografie quel giorno, trovavo che il suono e l’immagine in movimento fossero strumenti molto più adatti per raccontare quella particolare storia. Non andai neppure a Ground Zero, anche se si trova ad un solo miglio dal mio appartamento, perché sapevo che la cosa mi avrebbe nauseato… L’aria era inquinata in modo indescrivibile e sembrava veramente di stare all’inferno… Non c’è davvero altro modo di metterla giù. E fu così per mesi.
– Lei ha avuto modo d’incontrare molte icone (come lei d’altronde) della street photography. Chi di loro ha avuto il maggior impatto su di lei?
Garry Winogrand è quello che ha lasciato più il segno su di me. Iniziai a fotografare nel febbraio del 1977 e a luglio dello stesso anno partecipai ad un workshop di un weekend a Boston, con Garry. Credo di aver imparato tutto quello che mi serviva in quei tre giorni. Garry mi aprì gli occhi e la mente, insegnandomi veramente a vedere le cose e a trovare potenziali immagini da trasformare in fotografie. Guardarlo mentre lavorava era tutto quello che mi serviva… Ho imparato molto anche con e da amici e colleghi, come Steve Hirsch, Jules Allen, David Godlis, Jeff Jacobson, Alex Webb, Charles Harbutt, Joan Lifton, Jeff Mermelstein, Sylvia Plachy, Leonard Freed, Lou Lanzano, Michael Ackerman e molti altri. Ma il più grande insegnamento di tutti è stato semplicemente l’osservare il lavoro altrui su libri e mostre.
– Lei fu il primo ad usare il flash nella street photography; pensa che sia una strada da poter ancora percorrere nella street moderna?
Sì, esatto. Imparai la tecnica del flash con la lunga esposizione da un amico a Boston e cominciai ad usarla subito per strada, praticamente dall’inizio della mia carriera. Mi trasferii a New York nel 1980 e continuai anche lì, e, come giustamente dicevi tu, all’epoca ero l’unico a farlo lì. Naturalmente Diane Arbus, della generazione precedente alla mia, scattava col flash per strada, ma i suoi erano principalmente ritratti. Bruce Gilden mi chiese di mostrargli la tecnica e io gliela insegnai.
– Quant’è importante per lei e per la sua fotografia vivere a New York?
Beh, New York all’epoca era il posto ideale in cui scattare e ovviamente ha una storia di grandi fotografi di street – non c’è sicuramente bisogno che ve li nomini. Iniziai a fotografare quando vivevo a Boston ma la città era troppo piccola, vedevo la stessa gente tutti i giorni e sentivo di dovermene andare, così mi trasferii di nuovo nella mia città natale, che è appunto New York. Credo che essa sia un posto fantastico in cui scattare per via della diversità che vi si trova e per via della metropolitana. A Parigi si scatta bene ma i poliziotti sono una vera rottura; anche Londra è un buon posto. Ho sentito dire che anche Roma lo è, e a giudicare dai vostri ottimi lavori direi che è vero. Mi piacerebbe molto andarci un giorno.
– Pensa che la street photography si sia evoluta in confronto a com’era negli anni ’70 o ’80?
Credo ci siano degli ottimi fotografi al giorno d’oggi ma non troppi, un po’ come sempre, perché fare della buona street è molto difficile. Moltissimi scattano per le strade, di questi tempi, ma la maggioranza dei risultati è più che altro discreta, non di più. L’era del digitale ha visto crescere la quantità ma non la qualità del lavoro dei fotografi. Una delle tante ragioni per cui preferisco la pellicola al digitale è proprio perché è più difficile, necessita di più passaggi prima di vedere l’immagine “finita”. Penso che la fotografia debba essere difficile e volendo potrei scrivere davvero molto sull’argomento.
– Si ricorda di fotografie che non è riuscito a scattare?
Non direi, sono abbastanza sfrontato… Se vedo una potenziale fotografia butto quasi sempre la discrezione al vento e la scatto. Sono stato picchiato un paio di volte da soggetti arrabbiati, ma capita raramente e la cosa non mi crea grossi problemi, la gente ha il diritto di incazzarsi in fondo.
13 ottobre
Interessante intervista sulla fotografia di strada
RICHARD SANDLER – Cartelloni pubblicitari e sms hanno ucciso la street photography.
by Luigi Casentini | Aug 24, 2014 | INTERVISTE |
RICHARD SANDLER – Cartelloni pubblicitari e sms hanno ucciso la street photography.
ITA
– Signor Sandler, vorrei cominciare dalla fine: ho letto che lei aveva iniziato a scattare in bianco e nero perché voleva poter sviluppare le sue foto velocemente. Perché continua tutt’oggi a scattare in pellicola e in bianco e nero?
Scatto in bianco e nero perché “vedo” in bianco e nero; perché lo trovo più semplice, meno dispersivo e decisamente meno costoso del colore. Come sapete, scatto solo su pellicola. Quand’ero bambino la gran parte dei film erano in bianco e nero, così come la televisione, quindi quella è stata la mia impronta iniziale.
– Lei lavora anche col reportage, su riviste e quotidiani. Qual è la linea di confine (se ne esiste una) tra la street photography e il reportage?
Fare reportage consiste nel creare immagini che illustrino una storia già esistente, diventando una sorta di sicario, per così dire. Alle volte può capitare che la cosa si sovrapponga allo scattare nella strada, ma non succede spesso. Con la street si cercano storie che possano essere raccontate con una sola immagine. È un po’ un cliché, ma un fotografo di street è alla ricerca dello scatto che vale diecimila parole – o magari nessuna, perché si tratta di un’immagine talmente strana e particolare che non esistono ancora parole per raccontarla… Quelle sono le fotografie che preferisco.
– Come si muove quando scatta per strada? Cammina semplicemente e fotografa quello che vede o tende ad aspettare che succeda qualcosa di particolare?
Mi piace muovermi continuamente ed essere sempre alla ricerca di persone interessanti, o giustapposizioni di persone e sfondi. Le uniche volte in cui mi metto ad aspettare che succeda qualcosa in un dato punto è quando trovo una bella luce, ma quasi mai riesco ad ottenere qualcosa con questo metodo.
– In che modo è cambiata la street photography dal 1985, quando ha lavorato a CCtrain? Crede che sarebbe possibile ottenere fotografie del genere di questi tempi?
Io scatto soprattutto a New York, che, come la gran parte delle città di tutto il mondo, è cambiata davvero molto, e non la trovo più interessante com’era tra gli anni ’70 e i ’90. Oggi c’è molta più pubblicità, ci sono parole ovunque. La vita è molto più efficiente e legata al mondo lavorativo; ci sono un sacco di noiosissimi yuppie e molti meno personaggi “interessanti” in giro – una persona ogni tre parla al cellulare o ascolta la musica con le cuffie, e via dicendo. In altre parole, quel 33% dei passanti non è veramente “nella strada”, è alienato in un mondo virtuale e non è di alcun interesse per me… Penso che i cellulari abbiano quasi ucciso la street photography.
– Le capita mai di avere dei problemi nel fare street photography?
Sì, ne ho parlato nella domanda precedente. Inoltre, nel 1992 ho cominciato a lavorare anche come documentarista e video maker e, anche se continuo a scattare fotografie in pellicola da 35mm per la street, ormai il mio lavoro è soprattutto su video e film in pellicola a basso millimetraggio. A mio parere la street migliore, al momento, arriva da Teheran, che ha ancora l’aspetto di un bellissimo mondo “d’epoca”. C’è un gruppo di bravissimi fotografi lì, che lavorano sia su pellicola che su Instagram, e la luce nelle loro immagini è qualcosa di davvero speciale.
Ecco il link alla loro pagina: facebook.com/Fotomobers
– Lei ha anche documentato la tragedia dell’11 settembre. Quale impatto ha avuto questa catastrofe sul suo lavoro e sulle persone che incrociava per strada?
Ho girato un documentario sulla giornata dell’11 settembre 2001 e le settimane successive per le strade di New York; si chiama “Everybody is hurting”, una frase pronunciata da una delle persone che filmai nel parco di Union Square, il luogo di ritrovo in cui i newyorchesi andavano per sfogarsi, piangere e discutere. Non scattai fotografie quel giorno, trovavo che il suono e l’immagine in movimento fossero strumenti molto più adatti per raccontare quella particolare storia. Non andai neppure a Ground Zero, anche se si trova ad un solo miglio dal mio appartamento, perché sapevo che la cosa mi avrebbe nauseato… L’aria era inquinata in modo indescrivibile e sembrava veramente di stare all’inferno… Non c’è davvero altro modo di metterla giù. E fu così per mesi.
– Lei ha avuto modo d’incontrare molte icone (come lei d’altronde) della street photography. Chi di loro ha avuto il maggior impatto su di lei?
Garry Winogrand è quello che ha lasciato più il segno su di me. Iniziai a fotografare nel febbraio del 1977 e a luglio dello stesso anno partecipai ad un workshop di un weekend a Boston, con Garry. Credo di aver imparato tutto quello che mi serviva in quei tre giorni. Garry mi aprì gli occhi e la mente, insegnandomi veramente a vedere le cose e a trovare potenziali immagini da trasformare in fotografie. Guardarlo mentre lavorava era tutto quello che mi serviva… Ho imparato molto anche con e da amici e colleghi, come Steve Hirsch, Jules Allen, David Godlis, Jeff Jacobson, Alex Webb, Charles Harbutt, Joan Lifton, Jeff Mermelstein, Sylvia Plachy, Leonard Freed, Lou Lanzano, Michael Ackerman e molti altri. Ma il più grande insegnamento di tutti è stato semplicemente l’osservare il lavoro altrui su libri e mostre.
– Lei fu il primo ad usare il flash nella street photography; pensa che sia una strada da poter ancora percorrere nella street moderna?
Sì, esatto. Imparai la tecnica del flash con la lunga esposizione da un amico a Boston e cominciai ad usarla subito per strada, praticamente dall’inizio della mia carriera. Mi trasferii a New York nel 1980 e continuai anche lì, e, come giustamente dicevi tu, all’epoca ero l’unico a farlo lì. Naturalmente Diane Arbus, della generazione precedente alla mia, scattava col flash per strada, ma i suoi erano principalmente ritratti. Bruce Gilden mi chiese di mostrargli la tecnica e io gliela insegnai.
– Quant’è importante per lei e per la sua fotografia vivere a New York?
Beh, New York all’epoca era il posto ideale in cui scattare e ovviamente ha una storia di grandi fotografi di street – non c’è sicuramente bisogno che ve li nomini. Iniziai a fotografare quando vivevo a Boston ma la città era troppo piccola, vedevo la stessa gente tutti i giorni e sentivo di dovermene andare, così mi trasferii di nuovo nella mia città natale, che è appunto New York. Credo che essa sia un posto fantastico in cui scattare per via della diversità che vi si trova e per via della metropolitana. A Parigi si scatta bene ma i poliziotti sono una vera rottura; anche Londra è un buon posto. Ho sentito dire che anche Roma lo è, e a giudicare dai vostri ottimi lavori direi che è vero. Mi piacerebbe molto andarci un giorno.
– Pensa che la street photography si sia evoluta in confronto a com’era negli anni ’70 o ’80?
Credo ci siano degli ottimi fotografi al giorno d’oggi ma non troppi, un po’ come sempre, perché fare della buona street è molto difficile. Moltissimi scattano per le strade, di questi tempi, ma la maggioranza dei risultati è più che altro discreta, non di più. L’era del digitale ha visto crescere la quantità ma non la qualità del lavoro dei fotografi. Una delle tante ragioni per cui preferisco la pellicola al digitale è proprio perché è più difficile, necessita di più passaggi prima di vedere l’immagine “finita”. Penso che la fotografia debba essere difficile e volendo potrei scrivere davvero molto sull’argomento.
– Si ricorda di fotografie che non è riuscito a scattare?
Non direi, sono abbastanza sfrontato… Se vedo una potenziale fotografia butto quasi sempre la discrezione al vento e la scatto. Sono stato picchiato un paio di volte da soggetti arrabbiati, ma capita raramente e la cosa non mi crea grossi problemi, la gente ha il diritto di incazzarsi in fondo.
clelia tormen- Numero di messaggi : 186
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